Il sogno italiano delle ragazze cinesi

E’ la esse bolognese che ci ha colpito, mica gli occhi a mandorla. Quel modo di scivolare sulle parole, di dire «ma scherzi?» al posto di prego, non fa niente. Poi, anche ai giurati che gliel’hanno chiesto, ma perché sei venuta qui?, perché hai voluto partecipare a Miss China?, lei ha risposto che l’ha fatto solo per due foto, come dice a noi, adesso, seduta a un tavolo nella grande stanza vuota, dove riecheggia tutto, pure una risata, e la sua esse morbida, e il nostro silenzio, persino. Perché non ha nemmeno una foto, dice, e ne voleva una, e qui gliene hanno fatte due, e gliene faranno un’altra di sera alla sfilata. «Quando a- vrò i miei bambini, gliele farò vedere».

Questa è Venezia, e questo è il Casinò. Ma è un mondo così diverso quello che stiamo a guardare da questa luce rotta, fra nubi nere e un po’ di sole, che sembra di stare in un altro posto, o in un altro tempo, che l’arcobaleno del cielo non sia che un miraggio, o un’illusione, come gli occhi a mandorla e il suo accento di Bologna. «Miss China in Italy» è il concorso, come c’è scritto sullo striscione che stanno appendendo adesso in mezzo alla sala, e il suo organizzatore Steven Luon dice che tante cose sono cambiate da cinque anni fa, da quando l’avevano fatto per la prima volta. «Allora, le ragazze si erano pure rifiutate di sfilare in costume da bagno», ricorda Steven. Adesso, invece, hanno accettato. Una sola volta, però, di pomeriggio. Senza pubblico, solo per i giurati. La sfilata che conta, quella della sera, la si fa in abito lungo. Come in un sogno. Così dobbiamo venire qui, per capire che ci sono altri mondi che ci vivono dentro, che ci inseguono, o che abbiamo solo perduto. Forse era così, cinquant’anni fa, o forse non è mai stato così, forse non c’è mai stata da noi una come Yi Zhang che è venuta a un concorso solo per farsi dare una sua foto. Il papà e la mamma hanno un ristorante sotto le due torri, via Ugo Bassi, lì dietro. Yi Zhang ha un vestitino nero e i capelli raccolti con la coda di cavallo. Parla italiano come potrei farlo io, che non è che sono uno che ha dimenticato come si fa.

Lei e i suoi vengono tutti da Wenzhon, Sud Est della Cina, da un paese che si chiama Zhe Jiang, posto di mare e di pescatori. Anche Cristina Chen viene da Wenzhon, occhi a mandorla e un lavoro in uno studio dentistico di Brescia, 22 anni e 1,69 d’altezza. E Laura Lin, che vive a Milano dove studia economia all’Università e dove sfila ogni tanto come modella, e che a questo concorso ci ha già partecipato un’altra volta, quando arrivò quarta. Lei, nessuna foto: ci è venuta per vincere e basta, perché il premio lo prende solo chi mette la corona, tremila euro, «e sputaci sopra». Ma scherzi?

Certo, a rincorrere immagini e memorie, è tutto molto diverso dai concorsi classici, come s’affanna a spiegare Steven, niente a che vedere con Miss Italia, e con le luci della ribalta. Qui, è una via di mezzo tra una manifestazione culturale e uno spettacolo, «perché si privilegia lo scambio, l’incontro del mercato italiano con quello cinese. Vogliamo essere una realtà creativa, che lavora in Italia per costruire assieme agli italiani qualcosa di forte. Miss China è un modo per mantenere la nostra identità e al tempo stesso rafforzare l’appartenenza alla nuova comunità che ci ospita».

Poi, nella realtà, è tutto molto più casalingo. Quasi familiare. Basta guardare le ragazze, tutte insieme, come se partecipassero a un progetto, non a una sfida. La giuria è metà italiana e metà cinese, più il presidente, che è il direttore generale del Casinò di Venezia, Carlo Pagan. I criteri di valutazione, aggiunge ancora Steven, «sono diversi, nel senso che non sono soltanto estetici. Premiamo di più l’abilità nel fare certe cose, dal ballo al canto. E il livello culturale». In fondo, hanno quasi tutte studiato. Però, tutte sono venute da lontano, dalla povertà e dalla fatica, portate da un sogno e da qualcosa così. Viaggiatori a metà del guado. Come Cristina, che dice che lei ha nostalgia della Cina, «ma appena torno a casa ho nostalgia dell’Italia». O Come Yi Zhang con il suo accento di Bologna, che quest’anno è ritornata dalle sue parti per tre mesi, da febbraio a maggio. Era molto tempo che non ci stava, e l’ha vista così cambiata, «città che non riconosci più, grattacieli, specchi, macchine». Un’azienda italiana che sta a Shangai le ha offerto un lavoro: «Potresti aiutarci a inserirci», le hanno detto.

Deve ancora decidere. Però, pensa che rifiuterà. La lega il cuore in Italia. L’amore. Ah, facciamo noi, chiudendo il taccuino. Ti sei innamorata di un bolognese. Per questo lo parli così bene. No, dice lei. Un cinese. Vedi?, a metà del guado, sarà un cinese a portarla via dalla Cina.